Mini FAQ


Ci ha contattati in privato uno studente in Comunicazione e Marketing Sociale di bologna, il quale sta facendo nell’ambito di un progetto universitario un’analisi di scenario sul tema “Sperimentazione Animale”, chiedendoci di rispondere ad alcune domande.

Il tono e gli assunti impliciti nelle domande poste potrebbero essere considerati viziati da un atteggiamento pregiudiziale, invece crediamo che le domande siano state poste partendo da buona fede e neutralità e che siano solo il risultato dell’efficacia delle campagne di disinformazione in corso, sia su internet che sui media tradizionali.

Quasi tutte le domande trovano ampia risposta nelle nostre FAQ, ma queste domande e le relative risposte sono in  un buon riassunto delle cose più frequenti che ci troviamo a dire quando un conoscente o una persona che non si è mai occupata di questo argomento ci fa delle domande, e quindi ho ritenuto opportuno rispondere qui, sul blog.
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Ecco le domande e le risposte:

  1. Gli studi sugli animali sono inutili?

No. Gli studi sugli animali sono indispensabili sia per la ricerca di base che per i test farmacologici, questo è affermato all’unanimità da chi fa questo tipo di ricerca e confermato dall’intera comunità scientifica. Oltre il 95% degli scienziati a livello mondiale (inclusi coloro i quali non fanno ricerca sugli animali) considera la Sperimentazione Animale indispensabile [vedi http://www.nature.com/news/2011/110223/full/470452a.html ].

Esistono già metodi alternativi che possono essere utilizzati per avere risultati migliori?

Per alcuni tipi di esperimenti (specificamente per alcuni test tossicologici sui farmaci) sono stati sviluppati metodi che non fanno uso di animali; vengono effettuati investimenti enormi per svilupparne e validarne di nuovi (basti pensare che l’unico centro ricerche finanziato in modo strutturale dalla comunità europea è dedicato esclusivamente a questo, http://ihcp.jrc.ec.europa.eu/our_labs/eurl-ecvam ).

Ogni volta che per uno specifico test esiste una metodologia altrettanto efficace per ottenere il risultato senza utilizzare animali essa viene già utilizzata per almeno tre buoni motivi: anzitutto questi metodi sono meno costosi e più veloci (cfr. http://www.hsi.org/issues/chemical_product_testing/facts/time_and_cost.html ), in secondo luogo è obbligatorio farlo per legge (cfr. Direttiva 2010/63/UE Art. 4 comma 1), e in terzo luogo (ma non certo meno importante) esistono ovvie ragioni etiche alle quali i ricercatori non sono certo insensibili.

Per la gran parte dei test tossicologici, però, non esistono ancora metodi alternativi validi e quindi “saltare” i test sulle cavie comporterebbe un maggior rischio per i pazienti.

Tutto quanto sopra, poi, riguarda esclusivamente i test tossicologici, ma meno del 9% degli animali utilizzati in ricerca è destinato a questi test, mentre la maggior parte è utilizzata per la ricerca di base (http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM%3A2013%3A0859%3AFIN%3AIT%3APDF figura 3).

Nella ricerca biomedica di base (ossia in quell’insieme di attività volto a comprendere i meccanismi biologici che sono alla base del funzionamento delle cellule, dei singoli organi e degli organismi nel loro insieme, conoscenze indispensabili come premessa per l’ideazione di farmaci e terapie che andranno, poi, validate effettuando, tra gli altri, i test tossicologici) l’unico “metodo” è raccogliere le informazioni provenienti da vari modelli sperimentali, e tra questi quello animale è quello principale.

  1. Non sarebbe più efficace la sperimentazione direttamente sull’uomo?

Rispondiamo qui alla domanda letterale, ossia esclusivamente in termini di “efficacia” e tralasciando ogni considerazione di tipo etico, per cui basterebbe ricordare che le metodologie utilizzate negli anni ’40-’50 dal Dott. Josef Mengele non incontrarono molta approvazione sociale.

Per quanto riguarda alcuni test tossicologici (ad esempio i test di tossicità acuta, cioè verificare se una certa dose di un farmaco può ucciderti all’istante) provare i composti farmaceutici “direttamente” sull’uomo, saltando dunque il passaggio dei test sulle cavie, sarebbe più “efficiente”: salvo comportare la morte di alcune centinaia di persone ogni volta, questo porterebbe rapidamente a una risposta molto accurata.

Per quanto riguarda invece altri test come la tossicità cronica (ossia la capacità di un farmaco di provocare danni se usato a dosi moderate per molto tempo), oppure come la teratogenicità (ossia verificare la possibilità che un farmaco causi danni e malformazioni ai figli di chi lo assume), le risposte sono disponibili solo dopo un tempo ragionevolmente lungo rispetto al ciclo di vita delle specie su cui vengono effettuati i test: questo tempo è di pochi mesi per un topo e di decine di anni per un uomo. Dunque, sempre tralasciando ogni considerazione etica, la sperimentazione sull’uomo sarebbe molto meno efficace.

Per quanto riguarda infine la ricerca di base, oltre alle considerazioni già esposte sui tempi, occorre raccogliere informazioni che spesso possono essere ottenute solo utilizzando specie specifiche. A titolo di esempio lo studio di alcuni processi che regolano il funzionamento dei cromosomi è possibile solo utilizzando forme di vita con un ciclo cellulare veloce e manipolabile (infatti non si usano animali ma il lievito di birra), lo studio della formazione dei vasi sanguigni e di alcuni organi è possibile solo utilizzando animali “trasparenti” (infatti si usano gli zebrafish, pesci tropicali che hanno il corpo quasi completamente trasparente), lo studio di fenomeni come la formazione dei tumori è possibile solo avendo colonie di animali geneticamente identici e cresciuti in condizioni controllate (infatti si usano colonie di topi specificamente selezionate, cosa che richiede molte generazioni e anni di lavoro): se anche si potesse disporre di centinaia di gemelli umani identici, o cloni, non si potrebbe capire se le differenze tra l’uno e l’altro sono dovute a un trattamento o al loro stile di vita.

Per tutta la ricerca in campo neurologico esisterebbe infine il problema di discriminare le manifestazioni patologiche di origine organica da quelle psicosomatiche causate dallo stress derivante dalla “consapevolezza” di essere oggetto di esperimenti.

Tutte le considerazioni sopra esposte appaiono ovviamente paradossali e, se non ci fosse chi auspica di farlo davvero, dovrebbero far ridere, ma sono comunque la risposta pratica e meramente tecnica a “perché non è possibile”, anche volendo.

  1. E’ davvero giustificabile tanta sofferenza inflitta agli animali? (in particolare riguardo alla pratica della vivisezione)

La domanda è due volte mal posta e capziosa: nell’assunzione della “tanta sofferenza” e nell’uso della parola “vivisezione”. Entrambe sono ovviamente il frutto d’imponenti campagne di disinformazione.

Partendo dall’uso della parola vivisezione, al di la del linguaggio corrente distorto dalle campagne mediatiche, va precisato che essa si riferisce alle pratica di “sezionare animali vivi e coscienti”, ossia a ciò che faceva Luigi Galvani con le rane nel 1700. Questo è vietato in Italia da decenni e, peraltro, avrebbe ben poca utilità per la scienza moderna, e infatti l’ultima norma legale Italiana ad aver usato la parola “vivisezione” è la legge 924 del 1931.

Oggi si parla di “Sperimentazione Animale” per definire tutte le attività di ricerca che coinvolgono gli animali (anche quelle che non comportano il “tagliare” alcunché), va precisato che anche nei pochi casi in cui si effettuano interventi “invasivi” sugli animali essi avvengono sempre sotto anestesia (per legge), esattamente come per gli esseri umani, e quindi la parola corretta da utilizzare per questi interventi è chirurgia.

Passando alla ”tanta sofferenza” corre l’obbligo di precisare che le normative attuali prevendono che si faccia ogni sforzo possibile per limitare la sofferenza e lo stress degli animali impiegati, e che il quadro descritto da campagne mediatiche (formali come gli spot in televisione di chi rappresenta scimmiette incatenate, fatti peraltro da un’azienda che macella animali per produrne cibo per gatti, oppure informali come le immagini false o decontestualizzate che spopolano su internet) è pura e semplice leggenda metropolitana.

La realtà è che, ad esempio, le norme per l’allevamento e il trattamento delle cavie da laboratorio sono enormemente più restrittive di quelle imposte per gli animali da compagnia (a titolo di esempio la direttiva UE 63/2010 detta regole estremamente severe per spazi a disposizione degli animali, condizioni climatiche, controlli veterinari e financo rispetto delle abitudini sociali specifiche della specie, e nessuna di queste norme trova un’equivalenza nell’allevamento degli animali da compagnia). Sostanzialmente è molto più garantito il benessere di un topo in laboratorio di quello di un pastore tedesco allevato per essere venduto come cane da compagnia, e a sua volta è molto più garantito il benessere del cane da compagnia che quello di un bovino destinato al consumo come carne.

In termini numerici va poi rilevato che il numero di animali utilizzato per la ricerca in Italia è ordini di grandezza inferiore non solo di quello degli animali macellati per l’alimentazione umana ma financo di quelli macellati per l’alimentazione degli animali da compagnia.

Riconducendo la domanda alla realtà, pur essendo innegabile che gli animali da laboratorio vengano sottoposti in taluni casi a delle sofferenze (ricordiamolo: essi sono per la quasi totalità topi, ratti e pesci minuscoli, oltre l’80%, vedi di nuovo http://eur-lex.europa.eu/LexUriServ/LexUriServ.do?uri=COM%3A2013%3A0859%3AFIN%3AIT%3APDF alla tabella 1.1), chiedersi se queste sofferenze siano giustificabili o meno riporta all’unica domanda sensata: la sofferenza e la vita di un animale da laboratorio valgono più della sofferenza e della vita di un ammalato ?

È assolutamente lecito che qualcuno ritenga di voler dare a questa domanda una risposta diversa da quella ovvia, ma non è lecito che questa domanda venga distorta nelle premesse e nella rappresentazione della realtà, e non è probabilmente giusto che essa venga anteposta, come priorità, a tutti gli altri casi in cui l’uomo impone sofferenze ad animali o li uccide per motivi ben più futili, come l’alimentazione degli animali da compagnia.

  1. Possono gli studi effettuati sull’organismo di un animale essere realmente utili alla ricerca per le cure di malattie riscontrabili unicamente nell’essere umano?

Sì. Perché nonostante le differenze fisiologiche tra diverse specie la stragrande maggioranza dei meccanismi biologici di base è comune, e per quasi ogni funzione dell’organismo umano esistono specie che possono costituire un buon modello sperimentale per studiare e verificare i meccanismi che consentono quella funzione.

Negare questo significa negare il progresso della medicina, quella stessa medicina che ha portato la società dal mezzo milione di morti all’anno di poliomielite negli anni 40 allo zero attuale, che ha portato da una mortalità del 100% per leucemie e tumori infantili a meno del 30%, quella stessa medicina che ha portato l’attesa di vita di un malato di AIDS da 5 a 50 anni e che, per inciso, anche per gli animali ha portato malattie come la Leishmaniosi ad essere mortali in 1-2 anni ad essere malattie croniche facilmente controllabili.

  1. Perché secondo voi ancora numerose persone ignorano l’esistenza di metodi di ricerca alternativi?

Anche questa domanda è mal posta e capziosa.

In primis l’unico caso in cui è corretto parlare di “metodi alternativi” è quello di alcuni test tossicologici, pochi, per i quali i metodi alternativi validi vengono già utilizzati, come gia spiegato. In tutto il resto della ricerca biomedica la definizione corretta è “metodi complementari”: La ricerca non può prescindere dall’uso di diverse fonti d’informazione, dalle simulazioni in silico agli studi epidemiologici, passando per i modelli animali. Tutte queste fonti d’informazione forniscono i pezzi per ricomporre, con fatica, un puzzle di incredibile complessità.

In secondo luogo qualsiasi ricercatore utilizza quotidianamente i metodi che la propaganda contraria alla ricerca definisce “alternativi” e li conosce ovviamente molto bene. L’unica incomprensione avviene nel grande pubblico che, venendo disinformato, è portato a credere che questi metodi non vengano usati e che se venissero usati potrebbero consentire di ottenere gli stessi risultati senza l’uso di modelli animali. Questo è falso e chi lo sostiene mente.

  1. La ricerca alternativa è sufficientemente finanziata per poter riscontrare progressi significativi?

La ricerca, in generale, è poco finanziata, in Italia e altrove. In modo particolare sono poco finanziate la ricerca di base (perché questo rappresenta un investimento con tempi di ritorno troppo lunghi per un’azienda farmaceutica come per un politico in cerca di consensi) e la ricerca sulle malattie rare (perché in questo caso il guadagno, in termini economici o di consenso sciale, è quantitativamente limitato).

Ovviamente non esiste una definizione assoluta di “sufficiente”, banalmente qualsiasi investimento in ricerca, per quanto piccolo, è utile perché è meglio di niente; e qualsiasi investimento per quanto grande non è “troppo” perché investendo di più si potrebbero comunque ottenere maggiori risultati, e prima.

Nell’ambito della ricerca biomedica il comparto delle ricerche finalizzate a ridurre l’utilizzo di animali in laboratorio è uno dei più finanziati, basti pensare che come accennato l’unico centro ricerche interamente finanziato a livello strutturale dalla comunità europea è dedicato esclusivamente a questo. Questo avviene sia per la forte pressione sociale e mediatica in tal senso, sia perché nel medio termine lo sviluppo di sistemi e tecnologie che non comportano l’uso di animali, abbattendo i costi, comporta un risparmio, soprattutto in ambito farmaceutico.

Non è però possibile guardare agli investimenti singolarmente, occorre partire dal presupposto che le risorse messe a disposizione dalla società non sono illimitate e, ancora una volta, occorre definire delle priorità: gli investimenti in ricerca si possono al massimo spostare da una priorità a un’altra, difficilmente potranno essere anche solo raddoppiati, e il principio secondo cui più si investe più si ottiene vale per tutti gli ambiti.

Se oggi si spostassero tutti gli investimenti in ricerca biomedica e li si destinasse allo studio di metodi che consentano di ridurre il numero di animali impiegati è ragionevole pensare che nel giro di dieci anni si arriverebbe a utilizzare a livello nazionale centinaia di migliaia di animali in meno, e nel frattempo non si svilupperebbero cure che salveranno centinaia di migliaia di pazienti.

Quale sia la priorità è la società nel suo insieme a dover decidere, l’importante è che ancora una volta la domanda posta sia quella vera: conta di più la vita di alcune centinaia di migliaia di topi o quella di alcune centinaia di migliaia di pazienti ?

  1. Perché alcuni farmaci, anche testati su animali, presentano gravi reazioni avverse dopo la commercializzazione?

Per lo stesso motivo per il quale nonostante i crash test e le cinture di sicurezza migliaia di persone ogni anno muoiono ancora per degli incidenti stradali: nessun risultato può avere la pretesa di essere perfetto, e cercare di negare l’eccellenza di un risultato sottolineando che non è perfetto non aiuta e non porta a un dibattito costruttivo.

La biologia non è matematica e non esistono due organismi identici (nemmeno della stessa specie), anche una banale aspirina utilizzata senza problemi da 999.999 persone può uccidere la milionesima: perché è allergica, per una particolare predisposizione genetica, per una specifica condizione fisiologica o per un errore di dosaggio.

Lo scopo dei test sui farmaci è di minimizzare questi rischi, non può essere di avere la certezza deterministica che non esista alcun rischio, perché l’unico modo di avere questa certezza sarebbe non utilizzare farmaci, e morire per qualsiasi malattia.

Una sostanza attiva prima viene analizzata con simulazioni al computer, se risulta potenzialmente efficace e non tossica viene provata su colture cellulari e tessuti singoli ex-vivo, se anche questo passaggio suggerisce che è efficace e non pericolosa viene testata su degli animali, se poi anche questi test sono positivi allora viene testata su un numero ristretto di esseri umani, se anche questi test sono positivi il farmaco viene introdotto in commercio e continuamente “monitorato” con studi epidemiologici sugli utilizzatori.

Il passaggio sui modelli animali esiste, come tutti gli altri, per ridurre i rischi al passaggio successivo (ridurli, ben inteso, non eliminarli); se venisse omesso avremmo semplicemente più pazienti che muoiono nei test clinici.

Il riferimento ai farmaci che presentano reazioni avverse dopo la messa in commercio, dunque, è fuorviante e non pertinente, perché un farmaco viene messo in commercio dopo aver passato anche i test clinici su esseri umani, e quando un farmaco viene ritirato è perché le reazioni avverse non erano state previste né dai modelli animali, né dai “cosiddetti modelli alternativi” (silico, vitro, ex-vivo), né dai test sui pazienti umani.

Se i danni causati dalle reazioni avverse fossero da considerare un segno di “fallimento” questo fallimento sarebbe quindi di tutta la catena sperimentale, dai test in silico a quelli clinici sull’uomo, e non si capisce come rimuovendo uno dei passaggi più importanti (i test sugli animali) la situazione potrebbe migliorare: l’unico vantaggio sarebbe sicuramente un grosso risparmio da parte delle case farmaceutiche, e questo dovrebbe suggerire chi può davvero essere dietro a alcuni movimenti.

Deve poi essere precisato che circolano nella propaganda animalista numeri folli e totalmente falsi sui farmaci che provocano gravi reazioni avverse e vengono per questo ritirati: la stragrande maggioranza dei farmaci ritirati dal commercio viene ritirata perché vengono messi a punto in seguito farmaci più efficaci o con minori effetti collaterali, e questa è lungi dall’essere una cattiva cosa, è piuttosto un’evidenza di progresso. La realtà è che i danni causati da reazioni avverse sono una frazione minuscola rispetto alle vite salvate dalla medicina, solo che tutte le volte che un malato che sarebbe morto per una infezione viene salvato da un banale antibiotico non fa notizia, quella volta in cui un paziente sta male per avere preso un farmaco (quasi sempre per un errore di somministrazione o prescrizione) la cosa fa molto rumore.

  1. Secondo voi le informazioni trasmesse tramite media tradizionali sono sufficienti e sufficientemente dettagliate per fornire ai pubblici conoscenze adeguate sull’argomento?

Certamente no, e questo vale in generale per la divulgazione della scienza, la pessima informazione del pubblico sulla sperimentazione animale è solo uno dei problemi. Riteniamo che la pessima qualità dell’informazione sia responsabile non solo dei fenomeni legati all’animalismo, ma anche di tutte le altre manifestazioni di un clima che definiamo antiscientifico in cui la gente dà retta a ogni sciocchezza e a ogni ciarlatano: da Stamina agli anti-OGM e ai cibi “bio”, passando per le scie chimiche e per i rimedi omeopatici.

A titolo di esempio i telegiornali nel triennio 2011- 2013 hanno dedicato meno dello 0,5% dello spazio all’informazione scientifica, e anche considerando tutte le trasmissioni RAI si arriva appena allo 0,7%; di questo spazio i tre quarti sono stati in realtà dedicati alle iniziative della LAV e all’aggressione a Green Hill, ma questa non è informazione scientifica, è disinformazione propagandistica, in quanto né la LAV né i gruppi che hanno assaltato Green Hill hanno mai fatto ricerca o curato dei pazienti (vedi http://www.fisiologiaitaliana.org/_docs/sperimentazione/140123_ricercascientifica_in_RAI.pdf ).

Esistono poi gruppi editoriali che dedicano intere trasmissioni a propagandare anti-scienza e disinformazione strumentalizzata, pensiamo al caso Iene/Stamina o alle trasmissioni come “Domenica live” che spesso sono semplicemente spot, lunghi un intero pomeriggio, di disinformazione studiata a tavolino.

Non possiamo però scindere l’argomento “informazione sui media tradizionali” dall’argomento “politica”: è infatti evidente che il degrado dell’informazione sui media tradizionali su questi argomenti è da un lato causato da banale ottusità e ignoranza, dall’altro è l’effetto di pressioni politiche e interessi diretti. L’aspetto politico non preoccupa tanto per gli schieramenti politici che ormai (probabilmente privi di altri argomenti) cavalcano la demagogia animalista come un’ancora estrema di captatio benevolentie, quanto per la sistematica contaminazione di movimenti sani con l’infiltrazione di estremisti.

Non ci sono grandi motivi di preoccuparsi per quei partiti che hanno ormai fatto loro la battaglia antiscientifica, questi raccolgono consensi su un’onda meramente emotiva che ripaga sul breve ma che, storicamente, non ha mai portato a risultati pericolosi nel lungo termine, cioè appena i cittadini hanno il tempo di informarsi in modo corretto e capire cosa c’è di ragionevole al di la dell’emotività del momento (cfr. http://www.federfauna.org/newss.php?id=8854 per dei dati).

Preoccupano piuttosto le infiltrazioni di estremisti in gruppi politici in sé non pregiudizialmente schierati, con la candidatura di personaggi assolutamente discutibili, vedi l’infiltrazione di Gandini (tra coloro i quali parteciparono all’assalto allo stabulario dell’università di Milano l’anno scorso) nelle liste di Scelta Europea, quella di Zanoni nel PD, quella tentata da Sonia Alfano sempre nel PD (fortunatamente questa candidatura è stata rifiutata), e altre.

Queste contaminazioni del mondo animalista estremo nella politica rappresentano indubbiamente un pericolo per la società, grande quanto quasi la distorsione mediatica in atto.

  1. La crescita esponenziale che ha conosciuto Internet come mezzo di informazione negli ultimi anni ha favorito o complicato la ricerca di notizie e dati certificati e sostenuti da fonti riguardo l’argomento “sperimentazione animale”?

Internet non è un mezzo d’informazione ma piuttosto un mezzo di comunicazione; essa ha aumentato in modo enorme la quantità di informazione disponibile ma questo aumento è avvenuto a scapito della qualità. Su internet è disponibile (pochissimo) materiale di altissima qualità mischiato a (moltissimo) materiale completamente falso o prodotto da persone semplicemente deliranti.

Da un lato è possibile trovare le lezioni universitarie di università prestigiosissime come Harvard, Stanford e Princeton, e dall’altro si trovano i deliri di chi sostiene tesi pseudoscientifiche, dalla possibilità di curare il cancro con il latte di mandorla all’esistenza degli Elfi e delle Sirene, passando per il moto perpetuo; spesso materiale di questo genere, promosso da gruppi di fanatici con ideologie distorte, viene “montato” in modo quasi credibile per chi non ha una minima base scientifica.

Il grosso problema è che il materiale disinformante e delirante, oltre a prevalere per quantità, è spesso più “appealing”: di fatto è più facile che venga letto e recepito uno slogan falso montato su una immagine di impatto emotivo con tanto di scritta “fate girare” piuttosto che un “noioso” articolo di divulgazione scientifica.

Circolano centinaia di immagini legate alla cosiddetta “vivisezione”, e sono tutte false: foto di cani e gatti vittime di incidenti stradali, foto di normali interventi chirurgici fatti da veterinari per curare gli animali stessi, foto di laboratori in cina o in altri paesi dove non esistono regole, o foto scattate in laboratori americani negli anni cinquanta, si arriva anche alle immagini di scene di film horror. Tutto questo materiale viene “spacciato” per “foto di animali vivisezionati”.

A questo si aggiungono campagne montate in modo volutamente disinformativo come quelle di associazioni dell’estremismo antiscientifico (LAV, OIPA, LIMAV, etc) che usano tutti i più classici metodi della distorsione dell’informazione per suggerire che nei laboratori di ricerca avvengano maltrattamenti orribili o che la sperimentazione animale sia inutile.

[RV]

7 thoughts on “Mini FAQ

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